EFFETTO TRUMP-PUTIN/ Parigi e Londra, Tokyo e Oslo: un (non) tranquillo lunedì occidentale

Tre scenari europei e uno asiatico, tutti segnati da un aumento del disordine e dell'instabilità nelle ultime ore: Francia, Regno Unito, Giappone, Norvegia
Come largamente previsto, a Parigi il premier François Bayrou è caduto al voto di fiducia dell’Assemblea nazionale sulla proposta di manovra finanziaria d’emergenza. È il quarto premier a lasciare Matignon nei primi tre anni del secondo mandato di Emmanuel Macron all’Eliseo.
È il secondo consecutivo a gettare la spugna dopo pochi mesi, a valle della pesante sconfitta accusata da Macron all’euro-voto 2024, seguita da elezioni legislative anticipate che hanno “impiccato” il parlamento in blocchi. I sondaggi dicono che il primo partito francese rimane il Rassemblement National di Marine Le Pen.
Del tutto imprevisto – fino a quattro giorni fa – era che il premier britannico Keir Starmer si ritrovasse sul tavolo, il lunedì mattina, una letteraccia di un pattuglione di leader del suo Labour. Gli hanno pubblicamente rinfacciato “errori” nella caduta della vicepremier Angela Rayner, costretta alle dimissioni per un controverso caso di elusione fiscale.
Starmer è stato obbligato a varare venerdì sera un rimpasto-lampo, lasciando però aperta la successione della Rayner come numero due del partito, finora garante del nocciolo duro della “working class”. Il Labour è tornato a Downing Street un anno fa, dopo 14 anni di governi conservatori. I sondaggi, tuttavia, assegnano oggi la posizione di primo partito a Reform, la nuova destra “trumpiana” di Nigel Farage.
Ieri mattina si è svegliato senza governo anche il Giappone, caposaldo del G7 in Asia. Il premier Shigeru Ishiba si è dimesso dopo poco più di un anno: stava per essere sfiduciato dal Partito liberaldemocratico, che dopo settant’anni ha cessato di essere il “partito unico di governo” a Tokyo.
Inflazione, malumore sulla risposta ai dazi Usa, timori crescenti sul fronte cinese si sono uniti a una pazienza decrescente dell’elettorato per il tasso endemico di corruzione della politica nipponica, incarnata dal Ldp. Resta il fatto che i due ultimi round elettorali (l’anno scorso per la “camera bassa” del parlamento e lo scorso luglio per quella “alta”) hanno fatto registrare progressi netti per le formazioni della destra moderata ed estrema.
Non da ultimo, ieri si è votato anche in Norvegia. Il centrosinistra imperniato sul Labor Party si è confermato maggioritario di stretta misura (87 a 82 secondo gli exit polls). Ma lo scossone è stato visibile soprattutto nel centrodestra, dove il “neo-trumpiano” Partito del Progresso ha più che raddoppiato i suoi voti, sottraendoli ai conservatori moderati e surclassandoli come prima forza d’opposizione. Oslo – unica grande capitale europea fuori dalla Ue – promette in ogni caso di restare un laboratorio esemplare di tutti i maggiori squilibri politici occidentali correnti.

La Norvegia, grande esportatrice di gas e petrolio – e quindi unica “vincitrice” europea della guerra delle sanzioni contro la Russia – si è accesa in campagna elettorale per i postumi dell’inflazione che ha colpito anche il Paese scandinavo. A contribuire alla “resistenza” del centrosinistra ha contribuito l’ex segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, rientrato a Oslo come ministro delle Finanze dopo anni di totale sudditanza agli Usa dem di Joe Biden, guerrafondai in Ucraina.
Stoltenberg non sembra essere spiaciuto ai 5,5 milioni di concittadini per come ha condotto rapide trattative separate con Trump sui dazi, sulla stessa falsariga di quelle condotte dalla Ue. Nel frattempo, però, i “sovraprofitti di guerra” rifluiti nel Norges Fund, il più grande fondo sovrano del pianeta (1,5 trilioni di euro di investimenti) non si riproducono tranquilli al servizio del welfare come anche del riarmo in arrivo.
Norges è finito nel mirino dei partiti minori di sinistra, pacifisti fautori di un totale boicottaggio finanziario di Israele: con il rischio di spostare il Paese nel radicalismo anti-sionista, sgradito agli Usa e tabù antisemita.
Non da ultimo: il centrosinistra vuole lasciare invariato un prelievo fiscale sui grandi patrimoni privati (la misura è in vigore dal 1892), ma una parte del successo dei neo-trumpiani norvegesi ha premiato la proposta di ridurlo o abbatterlo.
Analisi e commenti – su tutto – continuano a essere sterminati e disparati. Ma tendono sempre di più a dividersi in due gruppi. Nel primo – tuttora maggioritario – il Grande Disordine Globale (ma essenzialmente occidentale) viene fatto risalire alla rielezione di Donald Trump alla presidenza della maggiore potenza planetaria e occidentale.
Un fatto sempre trattato come un cataclisma naturale, anomalia storica inaffrontabile e in fondo non spiegabile; estremamente disturbante per la pretesa “normalità” globale (occidentale) e quindi sempre in predicato di auspicato superamento presso le élites occidentali.
Un secondo aggregato di riflessioni si colloca invece in una prospettiva diametralmente rovesciata. L’ascesa del trumpismo – che data ormai da un decennio – non sarebbe causa ma effetto macro della “permacrisi”. Sarebbe l’inevitabile sbocco della progressiva incapacità del modello occidentale affermatosi nell’ultimo quarantennio di affrontare le sfide e risolvere le crisi prodotte dai suoi stessi mantra: dalla globalizzazione diseguale alla finanziarizzazione di impresa e lavoro; dall’espandersi post-democratico delle tecnocrazie sovranazionali alla “fine delle storia” socioculturale imposta dal pensiero Politically Correct.
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