LETTURE/ Cassar Scalia e quel “delitto di benvenuto” che cambia la vita del commissario Macchiavelli

Nel nuovo giallo Cristina Cassar Scalia lascia la vicequestore Guarrasi per il commissario Macchiavelli. Che a Noto indaga e cambia se stesso
Vi sono autori di romanzi polizieschi che si dedicano volta per volta, libro per libro, a protagonisti diversi, pur mantenendo, è chiaro, una sostanziale unità di ispirazione. Altri, invece, profilano un eroe e lo fanno tornare regolarmente in più di un’opera, magari mostrando la sua evoluzione.
Uno scrittore come Sciascia è un esempio del primo tipo; diversamente da lui, Georges Simenon ha assecondato, più e più volte, le inchieste del commissario Maigret, così come Agatha Christie si è dedicata a Hercule Poirot e a Miss Marple, pur mantenendosi libera di spaziare oltre quelle due figure-cardine.
Fino a ieri, Cristina Cassar Scalia, creatrice del personaggio di Vanina Guarrasi, vicequestore della Mobile di Catania al centro di nove, avvincenti romanzi, da Sabbia nera a Il castagno dei cento cavalli, è stata agevolmente ascrivibile alla seconda tipologia.
Evidentemente, però, ha avvertito che quel profilo non poteva esaurirla, le stava stretto, ed ha operato uno scarto, configurando, nel suo recente Delitto di benvenuto, un protagonista del tutto inedito e, come se non bastasse, neppure siciliano, il commissario Scipione Macchiavelli di Roma, improvvisamente assegnato dai superiori, decisi a sanzionare un eros al di sopra delle righe – nella fattispecie, la relazione con la moglie di un vice-ministro – mediante il trasferimento in provincia di Siracusa.
Per la precisione, nella cittadina di Noto, a Scipione del tutto sconosciuta, come del resto l’intera isola, molto ben nota, per converso, all’autrice, che ne è originaria e non nasconde di conoscerla palmo a palmo.
Partecipe, da un lato, dello spaesamento iniziale di Macchiavelli, il lettore beneficia, per altro verso, della confidenza spontanea dell’autrice con quei luoghi, imparando via via a farli suoi. Dopotutto quel centro non è affatto una vorticosa metropoli e si lascia accostare senza troppa fatica, insieme all’area circostante dove l’azione ogni tanto si sposta.
Come benvenuto al nuovo commissario, ecco, puntuale, il delitto. Che non era affatto pane quotidiano per Scipione durante il suo periodo romano, in cui svolgeva mansioni molto meno impegnative che perseguire delinquenti efferati, occupandosi invece di routinarie operazioni di pubblica sicurezza nella zona di via Veneto, increspata da innocue risse e, al massimo, da qualche rapina.
A Noto, naturalmente, i sottoposti di Scipione ignorano la scarsa esperienza del loro nuovo responsabile e gli attribuiscono al contrario una solida familiarità con crimini di spessore, data la provenienza, appunto, da una metropoli tutt’altro che tranquilla.
Macchiavelli non può disingannarli, è costretto ad agire, nel suo primo caso serio, come se godesse effettivamente di una conoscenza e competenza ben consolidate; in un certo senso, si deve inventare detective di fronte a esecutori fin troppo fiduciosi e ad avversari tutt’altro che acquiescenti, augurandosi di non incappare in sviste clamorose che denuncerebbero la sua impreparazione. Per fortuna, la stoffa la possedeva e con questo viatico mai messo alla prova, ma tutt’altro che inerte, può misurarsi con il rebus cruento che la sorte gli ha messo davanti.

Con uno spostamento in avanti non comune, Cassar Scalia colloca la notizia del delitto a metà circa del romanzo; prima si era trattato, nella coscienza comune, di una sparizione e ci vuole del tempo perché il cadavere in questione, quello del direttore di banca Gerardo Brancaforte, venga ritrovato, anche se Scipione aveva nutrito il preciso sentore del motivo di quell’eclissi. Insieme a lui sospettava fortemente anche il lettore, instradato del resto, fin dall’inizio, da un titolo eloquente.
Lo scarto, insomma, è relativo, crea solo quella percentuale di suspense strettamente necessaria che ogni ricevente di un libro del genere, a ragione, si aspetta. Molto meno prevedibile l’identità del responsabile; basterà, in questa sede, accennare che giudiziosamente l’autrice lo fa comparire per tempo, pur assegnandogli uno spazio minore e rinviando la messa a fuoco del suo spessore alle pagine finali e chiarificatrici.
Cassar Scalia ci aveva già offerto, nei suoi romanzi precedenti, il complementare affiancarsi di indagine pubblica e vita privata del detective, un doppio binario di sicura efficacia, in grado di scongiurare l’alea di un irrigidimento unidimensionale della trama (non era del resto una sua prerogativa: la strategia si trova senza difficoltà presso i suoi colleghi, ad esempio nelle opere dedicate da Maurizio de Giovanni al commissario Ricciardi).
In Delitto di benvenuto, dove agisce un investigatore mai rappresentato altrove e con buona dose di probabilità inventato per l’occasione, le due parabole, quella ufficiale e quella intima, si affiancano e finiscono per integrarsi, visto che Scipione Macchiavelli, ospite fisso, et pour cause, della farmacia di Noto gestita da Bruno Marineo e dalla figlia Giulia, finisce per innamorarsi di lei, cordialmente ricambiato ma al tempo stesso costretto a un impegno irreversibile.
L’unica strada per accostare una ragazza del genere è chiedere la sua mano, il passo più impegnativo che si possa immaginare, al quale comunque Scipione si piega volentieri, senza dover vincere alcuna resistenza interna, il che non è poco, dati i suoi trascorsi di viveur spregiudicato, tutt’altro che irreprensibile.
Forse si può immaginare che il plenario happy end compensi a distanza la conclusione amara del precedente romanzo dell’autrice, Il castagno dei cento cavalli, l’ultimo (in via definitiva?) della serie dedicata al vicequestore Vanina Guarrasi; dove l’anziano commissario Patanè, da tempo in pensione ma ben lieto di coadiuvare con la sua esperienza le indagini della protagonista, le deve annunciare, in una telefonata affranta, la morte della moglie. In Delitto di benvenuto, la spregiudicatezza erotica di Scipione Macchiavelli, che è poi ciò che gli frutta la sanzione del trasferimento abrupto in Sicilia, sfocia nell’alveo del matrimonio, insomma nell’explicit canonico, accennato comunque con una essenzialità che non dispiace.
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