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Perché le donne restano (ancora) escluse dai ruoli chiave nello sport

Perché le donne restano (ancora) escluse dai ruoli chiave nello sport

Che l'Italia nello sport abbia un problema per quanto riguarda le donne nella posizione di leadership è sotto gli occhi di tutti. Perché se le atlete oggi godono di una maggiore visibilità rispetto al passato, la situazione è ben diversa dietro le quinte: poche donne ricoprono ruoli decisionali come allenatrici, dirigenti, presidenti di federazioni o membri dei consigli direttivi delle organizzazioni sportive. E la nomina di Luciano Buonfiglio, 74 anni, come neopresidente del Coni non fa che andare in questa direzione. A poco serve l'entrata in Giunta di due grandi ex atlete come Diana Bianchedi (vicepresidente vicario) e Tania Cagnotto insieme con Laura Lunetta della Danza sportiva, vista più come un correttivo che come una scelta determinata.

Le donne al comando sono un problema (anche) nel basket. E nello sport in generale
Il futuro dello sport si gioca fuori dal campo

Ci vuole un impegno congiunto di istituzioni, media, società civile e delle stesse organizzazioni sportive per abbattere le barriere culturali e creare un ambiente dove le donne possano emergere, non per “quote rosa“, ma per merito riconosciuto. Solo quando la presenza femminile nei vertici sportivi sarà la norma, e non l'eccezione, si potrà parlare di vera parità nello sport. Insomma, il futuro dello sport si gioca anche – e forse soprattutto – fuori dal campo. E non potrà essere davvero vincente finché metà dei suoi talenti resterà fuori dai giochi decisionali.

Esiste un modo per riequilibrare la rappresentanza di genere?

E per parlare di questo ma anche delle soluzioni per riequilibrare la rappresentanza di genere abbiamo intervistato la presidente dell'associazione Assist Italy Luisa Garribba Rizzitelli che a Luce! ha lanciato anche un messaggio alle giovani donne che vogliono entrare nel mondo sportivo in ruoli di vertice.

Lo sport è sempre stato un anticipatore dei cambiamenti sociali, oggi invece è uno dei settori più stancamente conservatori. Perché secondo lei c'è ancora una predominanza maschile nei ruoli di potere sportivi?

“Lo sport è terreno di innovazione ma su alcuni ambiti è un simbolo di atteggiamenti conservativi e autoproteggenti. E noi lo vediamo su alcune cose. La prima, dove non facciamo bella figura, è la rappresentanza delle donne e dei giovani nell'organizzazione della politica sportiva ma anche del management. Non solo nei consigli federali, nel Coni, ma anche banalmente nelle dirigenze dell'associazioni sportive. Un altro punto resistente è nel fare dei passi avanti nell'abbattimento degli stereotipi e di una certa cultura legata allo sport di 70/80 anni fa sulla quale abbiamo lavorato più noi come società civile che la politica sportiva stessa. Ci aggiungo anche un terzo punto che ha segnato l'immobilismo. Nella volontà da parte dello sport di valorizzare quelle discipline femminili che avevano un enorme potenzialità. Le scopriamo adesso ma per arrivare ad una visibilità degna ci abbiamo messo 50 anni. E tu dici perché? Perché banalmente è una questione di potere. Il potere che da sempre ha gestito lo sport in Italia è appartenuto a uomini anziani spesso provenienti da altri ambiti di influenza sociale. E questo gruppo di persone ha protetto la propria casta. Non c'è stato nessun lavoro che portasse ad un rinnovamento. E non c'è stato nessun lavoro che, comprendendo le cause del fatto che le donne non ci fossero, sia andato nella direzione per far accadere il contrario”.

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Quali sono le conseguenze di questa disparità per il mondo dello sport, soprattutto per le atlete? E quanto pesa la mancanza di role model femminili ai vertici?

“La disparità per 70 anni è stata gravissima. Non avevamo nemmeno una disciplina sportiva femminile riconosciuta come professionista. Il punto è molto pratico. Se non sono professionista per lo sport italiano o per la legge del mondo del lavoro è come se lavorassi in nero, come se non esistessi. Molti ci fanno notare che in questa situazione si sono trovati diversi sport maschili. Verissimo, però noi per questi anni abbiamo avuto tutte le discipline femminili senza nessuna eccezione. Invece per i maschi avevamo il calcio, il basket, il ciclismo e la boxe che erano sport professionistici. Per le donne e per le persone che facevano dello sport il proprio lavoro ci siamo portati invece l'assenza di tutele e di protezione. Il danno è stato quindi pratico. E poi il fatto di non avere attenzione verso tutte quelle discriminazioni e di differenze di genere che sono ancora evidenti”.

Quali soluzioni proponete per riequilibrare la rappresentanza di genere?

“Abbiamo chiesto al neoletto Buonfiglio, e avevamo fatto lo stesso con Malagò e Abodi, di istituire un tavolo tecnico che parli di questi temi con persone esperte. Perché il punto è che per risolvere questo problema bisogna cambiare culturalmente la testa delle persone. Quindi fare formazione tra i tecnici, gli allenatori, i presidenti federali, ma bisogna anche andare a indagare quali sono i problemi per cui ci sono così poche donne e perché il sistema non ci vuole rinnovare”.

Le principali difficoltà (anche a causa dei media)

Qual è stata la maggiore difficoltà che ha incontrato come attivista o sostenitrice della parità?

“Ho fondato Assist 25 anni fa con amiche che sono ancora nel direttivo. Abbiamo avuto tantissime difficoltà. Ci hanno preso in giro per anni e hanno schernito le nostre battaglie. E' chiaro che gli atleti e le atlete, tranne pochissime eccezioni, avevano molta paura a parlare di questo. E ancora tutt'oggi è così perché è un mondo molto chiuso. Abbiamo incontrato un enorme resistenza e abbiamo fatto una grande fatica. Siamo state attaccate moltissimo e ritenute delle persone che volevano distruggere lo sport. Adesso le cose sono migliorate però ci vedono ancora come un terribile granello di sabbia in faccia”.

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I media contribuiscono o ostacolano il cambiamento? In tal senso, le donne leader nello sport, anche se poche, vengono raccontate abbastanza?

“Ho avuto, e Assist ha avuto, nei media dei grandissimi alleati soprattutto nei primi dieci anni di attività. Adesso è molto più difficile parlare di questi temi perché in effetti l'industria degli sponsor e quella della politica sportiva non vuole che si dipinga lo sport come un posto che ha questo tipo di problemi”.

I messaggi per le giovani donne

Ha un messaggio per le giovani donne che vogliono entrare nel mondo sportivo anche in ruoli di comando?

“Avrei due messaggi. Il primo è alle atlete ancora in attività. Fatevi portabandiera e abbiate il coraggio di parlare e unitevi in questa battaglia. Alle ragazze invece che vogliano intraprendere la carriera in qualunque posizione è quello di farsi sentire quando qualche loro diritto viene calpestato o quando non vengono tenute adeguatamente in considerazione. La voce di una persona che subisce un torto diventa poi un assist per andare a trovare un problema. Non è semplice perché non possiamo pretendere che tutte siano forti e abbiano il coraggio di farlo. Non arrendetevi e se qualcuno vi vuole fermare fatevi sentire”.

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Come immagina lo sport tra 10 anni? Riusciremo a raggiungere una vera parità nei vertici?

“Il sogno che ho è quello, nel giro di venti anni, di riuscire ad arrivare, non solo, ad una parità formale (gli stessi numeri), ma proprio alla possibilità di vedere uomini e donne che lavorino insieme nel rispetto delle proprie differenze. E' ovvio che questa cosa può avvenire se hai dei numeri adeguati. La strada non è semplice però adesso capiamo di poter essere ascoltate molto di più”.

Luce

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