Cosa può e deve fare l’Europa per uscire dalla trappola fra America e Cina

Foto Ap, via LaPresse
Decrescita infelice
A trainare il progresso tecnologico e le rivoluzioni della crescita e della produttività sono due fattori, l’attitudine e l’approccio, cioè un modello produttivo costruito sull’innovazione permanente e la disponibilità culturale, ancor prima che economica
Nel post Busan, il vertice che ha siglato una tregua e non una svolta nelle guerra commerciale tra Usa e Cina, resta evidente che i due protagonisti hanno ciascuno un’arma potente per ricattare l’avversario. Gli Stati Uniti di Trump lo fanno attraverso il bando a fisarmonica all’export in Cina di semiconduttori avanzati, vedi i casi di Nvidia e Nexperia. La Cina usa allo stesso fine le accelerate e frenate sul bando all’export di terre rare. E l’Europa resta in mezzo da spettatrice, perché consimili eccellenze strategiche non fanno parte delle sue specializzazioni produttive e tecnologiche. In questo quadro, è più che mai necessario uscire una volta per sempre dalle lagne che caratterizzano l’approccio europeo e italiano. Non siamo vittime innocenti. Abbiamo commesso errori drammatici a casa nostra. E ora a quegli errori bisogna rimediare in fretta, sapendo che occorreranno anni per attenuare la nostra dipendenza strategica e la decrescita della nostra industria. Invece la tesi prevalente resta “la Cina ci ha fregato, è entrata nel Wto 25 anni fa ma non ha mai combattuto ad armi pari, tra giganteschi sussidi di stato e plagio copia-incolla delle nostre tecnologie”. E’ un’accusa fondata ed è colpa nostra comunque non aver reagito, ma in ogni caso la lagna non ci farà compiere un solo passo avanti.
La verità è che qualcuno lo aveva previsto sin dall’inizio, che cosa sarebbe successo all’Europa. In un forum di economisti nel 2003, tre anni prima di vedersi riconosciuto il Nobel per l’economia, Edmund Phelps lanciò un vaticinio che lasciò tutti interdetti. La Germania imboccherà la via del declino sia rispetto alla Cina sia agli Usa, disse, e si trascinerà dietro l’industria europea. Perché, aggiunse, la Germania resterà convinta di giocare un ruolo di primo piano in Europa e nel mondo difendendo la propria eccellenza su prodotti mid tech come l’auto, che è il cuore della manifattura tedesca. Mentre nei prossimi anni il dominio industriale si giocherà tutto sull’hi-tech. E’ esattamente ciò che è avvenuto, lo dimostrano i quasi tre anni di recessione tedesca trainata al ribasso dalla crisi strutturale dei suoi grandi gruppi dell’auto, crisi che per via delle forti interdipendenze tra filiere produttive tira verso il basso da 28 mesi anche la produzione industriale italiana.
Wolfgang Munchau, oggi direttore di Eurointelligence dopo decenni di giornalismo spesso iper polemico, ha scritto giustamente su UnHerd (sito britannico fondato 7 anni fa da un giornalista conservatore e da un hedge fund manager) che l’Europa non ha capito per vent’anni un punto fondamentale. Quello al centro della riflessione dell’economista Joel Mokyr che ha appena vinto anch’egli il Nobel dell’economia. Il suo libro del 2016 "A culture of Growth" si fonda su un principio basilare. A trainare il progresso tecnologico e le rivoluzioni della crescita e della produttività sono due fattori, l’attitudine e l’approccio, cioè un modello produttivo costruito sull’innovazione permanente e la disponibilità culturale, ancor prima che economica, ad aprirsi a effetti trasformazionali anche molto profondi. La Cina delle modernizzazioni lanciate negli anni Ottanta non aveva queste caratteristiche, e di conseguenza inondò di propri studenti le più avanzate università degli Usa. Gli Stati Uniti sono rimasti sempre aperti all’approccio della distruzione creatrice da nuove tecnologie, ma hanno perso molti punti sulla produttività ed efficienza della manifattura mid tech. L’Europa aveva un sistema produttivo non particolarmente aperto all’ Open Innovation se non per il crecente ruolo dei robot manifatturieri, ma mancava e manca nel suo retaggio culturale di un approccio proattivo alle rivoluzioni dovute alle nuove tecnologie, ICT ieri e AI oggi. In più, l’Europa si è fatta ancor più male da sola imboccando la via di una presunta “superiorita etica”, con tutto il suo profluvio di norme come Green Deal, Fit for 55, ETS e direttive sulla rendicontazione d’impresa. Sul digitale, dalla Gdpr all’AI Act, la Ue chiede alle imprese asfissianti standard di certificazione dei rischi dovuti alle tecnologie adottate, l’esatto contrario del piede premuto sulle accelerazioni e semplificazioni adottate da Usa e Cina per diffondere in tutta la propria struttura produttiva la nuova rivoluzione dell’AI. Una strategia che la Cina ha appena rafforzato con le linee guida per il suo prossimo piano quinquennale.
Dunque, inutile continuare a lagnarsi. O le classe dirigenti della politica e dell’economia europea decidono di rivoluzionare il loro approccio e abbracciare con fora l’innovazione, correggendo dalle fondamenta i loro errori normativi, oppure il loro declino sarà frutto di un colossale errore: credere che il nostro mid tech sia eterno mentre, nella vita come nell’economia, nulla lo è.
Di più su questi argomenti:
ilmanifesto




