Il fiscal drag è di 25 miliardi (non 12) e lo hanno pagato i redditi medio-alti

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i dati
Quando l’inflazione corre e le soglie fiscali non si muovono, il gettito aumenta "occultamente" con la crescita dei prezzi. In Italia il mancato adeguamento pesa per circa 25 miliardi tra il 2019 e il 2023 e i redditi superiori ai 35 mila euro sono gli unici che lo hanno pagato senza avere grandi compensazioni
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Il fiscal drag non è un’anomalia italiana: è comune a tutti i paesi con un sistema fiscale progressivo quando c’è inflazione. Quando i prezzi salgono ma le soglie fiscali restano ferme, i contribuenti si ritrovano a pagare più tasse anche se il loro potere d’acquisto non è aumentato. E’ un drenaggio silenzioso, che sposta reddito dai contribuenti allo stato.
Un’indagine dell’Ocse (Taxing wages 2023) su 38 paesi sviluppati mostra che 18 paesi indicizzano automaticamente le imposte e i trasferimenti sociali all’inflazione. L’Italia è uno dei 20 paesi che non adegua automaticamente né l’Irpef né i benefici sociali. Ma mentre la maggior parte di questi 20 paesi ha deciso comunque di adeguare le soglie data l’alta inflazione, l’Italia è rimasta la sola a non indicizzare quasi nulla insieme a Spagna, Malta e Cipro. Quasi tutti i paesi che adeguano automaticamente usano l’indice dei prezzi al consumo o indici derivati, 16 paesi tra cui Stati Uniti, Canada, Messico, Belgio, Francia, Norvegia, Austria e altri. Solo una minima minoranza (per la precisione due: Danimarca e Lituania) utilizza l’andamento dei salari, e lo fa per contenere la spesa pubblica, non perché sia “giusto”. Il riferimento corretto resta l’inflazione generale, perché il fiscal drag misura esattamente le tasse “in più” che i cittadini pagano per effetto dell’aumento dei prezzi, non dei salari. Se un giorno l’Italia dovesse decidere di indicizzare l’Irpef dovrebbe fare come i 16 paesi che indicizzano ai prezzi: sconsiglieremmo vivamente di utilizzare il tasso di crescita dei salari per la ovvia ragione che i salari crescono molto meno dei prezzi. Se si volesse “risparmiare”, si potrebbe indicizzare l’Irpef ai prezzi solo ogni tanto oppure solo sopra una certa soglia di inflazione.
Per far capire la differenza tra indicizzare ai prezzi piuttosto che ai salari basta un esempio storico. Le pensioni sono rivalutate usando l’indice dei prezzi. Durante la crisi del 1992 si discusse di legare l’indicizzazione delle pensioni ai salari per risparmiare. Si sostenne che non fosse giusto trattare diversamente lavoratori e pensionati, ma si sapeva benissimo che il potere d’acquisto delle pensioni si mantiene indicizzandole ai prezzi, non ai salari. Quella discussione finì in nulla: le pensioni continuarono a essere rivalutate rispetto ai prezzi (semmai oggi il governo Meloni risparmia per aver tagliato la rivalutazione sopra la soglia di 2.100 euro lordi al mese). Per chiarire in parole semplici. Un recente paper della Banca centrale europea ha stimato il fiscal drag nei paesi europei. Se si utilizzano gli stessi anni – dal 2019 al 2023 – e il deflatore dei prezzi, per l’Italia il risultato è circa 25 miliardi di euro di Irpef in più dovuti solo al drenaggio fiscale. Se invece si usa come deflatore la crescita dei salari, il valore risulterebbe molto più basso: 12 miliardi.
Ma, come abbiamo detto, il deflatore giusto è quello dei prezzi. E 25 miliardi sono una stima per difetto perché i redditi bassi hanno spesso perso l’accesso ai benefici del welfare legati alle soglie Isee e i redditi alti hanno pagato più fiscal drag attraverso le addizionali Irpef locali e comunali. Entrambe le cose qui non sono prese in considerazione. Assodato quindi che sono circa 25 miliardi, la domanda è se il fiscal drag sia stato restituito per intero ai cittadini attraverso riduzioni del carico fiscale? Se si tiene conto di tutte le riduzioni fiscali dei governi Draghi e Meloni si arriva a 25 miliardi ma finora, esclusa questa legge di bilancio, tutte le riduzioni fiscali hanno riguardato prevalentemente i redditi bassi sotto i 35 mila euro annui, mentre poco o nulla è andato ai redditi superiori. Loro hanno solo pagato il fiscal drag senza avere grandi compensazioni. In questa legge di Bilancio, il governo rivendica di aver ridotto le tasse sul ceto medio. Ma in realtà non si tratta di una restituzione del maltolto. I circa 3 miliardi all’anno di riduzione dell’Irpef sul ceto medio rappresentano il rimborso, parziale, di ciò che il fiscal drag aveva tolto.
Infine c’è un discorso serio da fare, ovvero che molti possano considerare normale o anche “giusto” che il governo incassi il fiscal drag e poi discrezionalmente usi quelle entrate per ridurre il debito pubblico, per aumentare le spese o ridurre le tasse a chi preferisce.
In fondo ci sono 20 paesi su 38 che, come l’Italia, non indicizzano automaticamente l’Irpef. Si sappia però che il fiscal drag è assente o contenuto finché l’inflazione è bassa, come negli ultimi 30 anni, ma quando l’inflazione si rialza produce un aumento meccanico della pressione fiscale Irpef e un gettito importante. L’Ocse la chiama “tax by stealth”: tassa occulta. E la stessa cosa accadrà se l’inflazione dovesse rialzare la testa.
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