Edgardo Pistone: «La mia Napoli in bianco e nero non è edulcorata»

Corpi affusolati si tuffano nell’acqua profonda di Marechiaro. Distesi su scogli di tufo, dei ragazzi fumano, chiacchierano, scherzano, rumorosi, selvaggi e puri, come la bellezza dell’adolescenza che non conosce ostacoli e sfida la vita, il mondo, nel suo esplodere incontrollato, autentico. È un quadro l’inizio di Ciao bambino, lungometraggio di esordio di Edgardo Pistone che affonda dentro la storia ordinaria e poetica di Attilio, scugnizzo orgoglioso e capatosta, costretto suo malgrado a crescere in fretta. Nelle scene corali, nei fermo immagine, nei ritratti in bianco e nero, nell’approccio punk di usare attori non professionisti, «trovati in modo casuale e caotico», c’è un piglio autoriale notevole, la voglia di raccontare un’altra Napoli, attraverso gesti, bocche, corpi, desideri degli adolescenti che ci vivono. Pistone, classe, 1990, «nato, vivo e morto al Rione Traiano», si era fatto già notare con il corto Le mosche (Premio per la migliore regia alla Settimana della Critica di Venezia 2020). In queste settimane sta portando il film in giro per l’Italia. L’abbiamo sentito al telefono.

Come nasce «Ciao bambino»?
Avevo scritto diversi film, complicati da realizzare da un punto di vista finanziario, ho recuperato vecchie idee: una era raccontare la mia adolescenza, soprattutto nella relazione con mio padre. Era scoppiato il conflitto in Ucraina, avevo letto che c’erano predatori sul confine che prendevano le donne in fuga per metterle in strada. Sono nato nel ’90, ho visto le conseguenze del conflitto in Jugoslavia sui corpi delle donne, è un’immagine che mi ha sempre turbato. Ho messo insieme i due soggetti, facendo incontrare il diciassettenne che fui con questa giovane prostituta. C’è una parte che riguarda me, la mia rappresentazione del mondo, mio padre, l’altra parte, più inventata, è legata alla preoccupazione rispetto alle sorti delle donne che scappano da un conflitto.
Il tema dell’adolescenza, già presente in altri tuoi lavori, qui è centrale, assieme alla questione di un’eredità dei padri con cui fare i conti, e non perché questi ragazzi sono nati nelle palazzine popolari.
M’interessano i sentimenti degli adolescenti, privi di qualsiasi sovrastruttura intellettuale, culturale: i sentimenti dritti e puri sono più potenti al cinema. La paura del futuro è centrale, a quell’età la crescita rappresenta un salto nel vuoto senza il privilegio dell’esperienza. Il passato è rappresentato nella relazione tra gli individui e la propria eredità. In questa storia il passato è invadente, il film prova a raccontare l’impossibilità del frutto di cadere troppo lontano dall’albero. La parabola narrativa di Attilio è intrisa di speranza, quest’ambizione si scontra col principio di realtà: è una mia paura. Non è un racconto generazionale, è legato all’adolescenza come stagione della vita. Ho immaginato questi ragazzini sulle sponde del Mediterraneo che si confrontavano sull’eredità dei padri, sembrava che il film comunicasse con la tragedia greca, più che con la critica sociale.
Ancora bianco e nero, il paesaggio urbano – un rione popolare – diventa un paesaggio emotivo. Come hai lavorato, perché queste scelte?
Sul rione ho cercato di fare un lavoro di trasfigurazione per restituire agli scenari una forma emotiva. I personaggi sono distanti tra loro, m’interessava rendere la distanza tra gli individui, soprattutto in quartieri come questo, privi di qualsiasi senso di collettività: è la solitudine che ho avvertito nella mia adolescenza. L’uso del bianco e nero ha l’ambizione della ricerca formale della bellezza, per sospendere il racconto nel tempo, nello spazio, rappresentare la periferia come un altrove, un mondo ideale che si smarca dal reale, restituendo la verità di alcuni sentimenti. Lavoro con oggetti e soggetti del reale, il bianco e nero mi aiuta a bilanciare tutto questo realismo, come un filtro tra spettatore e film.
«Ciao bambino» scardina i soliti immaginari cinematografici legati a Napoli.
Non volevo mi si attaccasse addosso l’etichetta del solito film sulla periferia. Per questo provo a discostarmi dalla rappresentazione di una Napoli folcloristica, edulcorata, colorata, da un punto di vista immaginifico mi divertiva costruire la mia Napoli, completamente diversa dalla quella che sono abituato a sorbire nella rappresentazione comune. La nostra città spesso si auto rappresenta come un pulcinella ubriaco, come se ci fossimo trasformati nel sogno di una borghesia che vede Napoli come luogo esotico dove i turisti vengono a fare il safari gastronomico, fotografando i bassi.
Il film ha una dedica importante.
È dedicato a Gaetano di Vaio. Ha fatto esordire tanti registi, l’ultimo, prima che ci lasciasse, sono stato io. Era orgoglioso del lavoro, vedeva una sincerità e un’umanità nel narrare dall’interno che, il più delle volte, chi viene a raccontare Napoli da fuori non ha: sentiva quest’umanità molto affine alla sua. Il nostro incontro rappresentava un punto di partenza.
ilmanifesto