L’altra tragedia del terremoto in Afghanistan: donne non vengono soccorse a causa delle regole talebane

Più di 36 ore. Oltre un giorno e mezzo di attesa prima che i sopravvissuti del villaggio di Bibi Aysha vedessero arrivare i soccorritori, dopo che un terremoto di magnitudo 6 ha devastato l’Afghanistan nord-orientale nella notte del 31 agosto scorso. Ma quando i volontari sono arrivati tra le case distrutte, la speranza di tante donne si è spenta in un attimo. Era come se il mondo crollasse loro di nuovo addosso. Non c’era una sola soccorritrice, e le rigidissime regole imposte dal regime talebano hanno fatto il resto: vietato ogni contatto fisico con un uomo che non sia parente stretto. Così, anche di fronte a ferite sanguinanti o disperse, le donne sono state messe da parte dalla macchina degli aiuti.
“Ci hanno radunate in un angolo e si sono dimenticate di noi”, ha raccontato Bibi Aysha, 19 anni, a un’inviata del New York Times. Parole che pesano come macigni, perché raccontano di una tragedia nella tragedia: non solo le macerie che hanno sepolto interi villaggi, provocando oltre 2.200 morti e circa 4.000 feriti, ma anche quelle di un sistema che cancella la dignità femminile, quando non la stessa esistenza delle donne, rendendo invisibili metà della popolazione.
Il numero enorme delle vittime, degli sfollati, dei dispersi non restituisce la crudezza delle scene descritte dai testimoni. Come riporta il quotidiano statunitense, nel villaggio di Andarluckak, alla provincia orientale di Kunarle, le squadre di emergenza hanno prestato soccorso a uomini e bambini, ignorando volontariamente le donne, lasciate ad attendere cure che, però, non sono mai arrivate. A Mazar Dara, una delle comunità più colpite, i soccorritori si sono rifiutati di estrarre le cittadine intrappolate sotto i detriti: queste hanno dovuto aspettare l’arrivo di altre donne, provenienti da villaggi vicini, per essere liberate. “Sembrava che fossero invisibili”, ha raccontato con rabbia alla stampa un testimone. Invisibili persino nella morte: se nessun parente maschio era presente, i soccorritori trascinavano i corpi delle vittime afferrandoli per i vestiti, per evitare il contatto con la pelle.

La discriminazione nei confronti della popolazione femminile in Afghanistan non è nuova, ma nelle emergenze diventa letale. Da quando i talebani sono tornati al potere, nell’agosto del 2021, hanno imposto divieti sempre più stringenti: alle ragazze è proibito st udiare oltre la scuola primaria, le donne non possono viaggiare senza un accompagnatore né lavorare nella maggior parte dei settori. L’anno scorso hanno perfino vietato l’accesso ai corsi di medicina. Oggi il Paese soffre una gravissima carenza di personale sanitario femminile, e la conseguenza è stata evidente nei giorni del terremoto: migliaia di ferite lasciate senza cure, o curate troppo tardi.
Le organizzazioni umanitarie denunciano da tempo il rischio che le donne siano più colpite dai disastri naturali, come ha ribadito anche in questa occasione Susan Ferguson, rappresentante di UN Women in Afghanistan. Ma il regime talebano non mostra segni di apertura, e anche per gli aiuti dall’estero ci sono enormi ostacoli. Sul posto infatti i soccorsi sono resi poi ancora più difficili dall’isolamento internazionale del Paese, dalla scarsità di mezzi e dalla conformazione montuosa, con interi villaggi di fatto non raggiungibili a causa delle frane.
Dopo la prima scossa, nella notte tra il 31 agosto e il 1° settembre, altre due scosse hanno ulteriormente aggravato la situazione. Migliaia di famiglie dormono ancora all’aperto, senza cibo né riparo, mentre l’inverno si avvicina. Tra le montagne della provincia di Kunar restano cumuli di pietre, case sventrate, e una popolazione che conta i suoi morti. Restano le donne sedute in disparte, ferite e silenziose, che continuano ad aspettare cure, ascolto, dignità. Aspettano che qualcuno ricordi che anche loro esistono.
Luce