Seleziona la lingua

Italian

Down Icon

Seleziona Paese

Italy

Down Icon

Quale è il patto che ci lega ai libici? La Meloni smetta di fare show e spieghi al Paese

Quale è il patto che ci lega ai libici? La Meloni smetta di fare show e spieghi al Paese

Il caso Almasri

Sugli scellerati accordi con torturatori e milizie deve essere incalzata e costretta a esporsi davvero in prima persona di fronte al Paese

Foto Filippo Attili/Ufficio stampa Palazzo Chigi/LaPresse
Foto Filippo Attili/Ufficio stampa Palazzo Chigi/LaPresse

Non bisogna scomodare l’antifascismo più o meno militante per registrare la stretta parentela tra il post con il quale Giorgia Meloni si è assunta la piena e personale responsabilità della decisione di liberare il torturatore ricercato libico Almasri e lo storico discorso parlamentare del 3 gennaio 1925 di Benito Mussolini. Anche il duce, chiudendo da vincitore la crisi seguita al delitto Matteotti, aveva rivendicato la totale responsabilità di tutte le gesta dei fascisti. Il piglio è identico, il copione molto simile, la retorica perfettamente sovrapponibile.

“Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa!” aveva tuonato Mussolini. E ancora: “Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere io sono il capo di questa associazione”. “Rivendico che questo Governo agisce in modo coeso sotto la mia guida: ogni scelta, soprattutto così importante, è concordata. È quindi assurdo chiedere che vadano a giudizio Piantedosi, Nordio e Mantovano, e non anche io, prima di loro”, duetta a distanza di un secolo Meloni. La spavalda assunzione di responsabilità implica però alcune conseguenze. La prima e principale è sbugiardare nel modo più clamoroso proprio i ministri ai quali la premier vuol fare scudo. Avevano detto e ripetuto che Almasri era stato liberato solo per vizi di forma, senza alcuna decisione dall’alto in quel senso. Avevano accampato alibi burocratici, documenti carenti, ritardi tali da imporre la liberazione, ovviamente a malincuore, del criminale inseguito da mandato di cattura internazionale. La premier indica invece una scelta politica precisa e assunta da lei prima che da chiunque altro: “Ribadisco la correttezza dell’operato dell’intero Esecutivo, che ha avuto come sola bussola la tutela della sicurezza degli italiani”.

Per quanto zoppicante e spesso contraddittoria la favola raccontata da Nordio e Piantedosi non permetteva di dare per certa la corresponsabilità della premier, nonostante i fortissimi dubbi in proposito. Il post belligerante di Meloni risolve ogni dubbio. A questo punto il procuratore di Roma Lo Voi è praticamente tenuto a chiedere di procedere anche contro di lei. Il richiamo esplicito alla difesa dell’interesse nazionale potrebbe preludere all’apposizione del segreto di Stato. Però è molto improbabile che una politica scaltra come Giorgia invochi il segreto dopo la richiesta di rinvio a giudizio: il danno d’immagine sarebbe letale. Dunque il Parlamento voterà e respingerà le richieste di autorizzazione a procedere contro i ministri Nordio e Piantedosi e contro il sottosegretario di fiducia della premier, Mantovano, forse prima ancora che la procura di Roma abbia avanzato la richiesta anche a carico della principale responsabile della liberazione di Almasri. Immaginare un esito diverso, rinverdire le dimissioni del ministro Lattanzio quando nel 1977 un altro criminale di guerra, Herbert Kappler, fuggì dall’ospedale militare del Celio, sarebbe inutile. Il passo indietro di Lattanzio non implicava la crisi di governo. In questo caso sarebbe inevitabile. La rinuncia all’immunità, invocata senza crederci ovviamente nemmeno un po’ dall’opposizione, significherebbe esporsi a condanne pesantissime. L’esito del voto è già scontato.

Ma non si può dire la stessa cosa a proposito del dibattito che precederà quel voto. Sin qui il governo si è sempre fatto scudo degli errori tecnici. Ha sempre negato di aver intenzionalmente liberato il torturatore. Ha accampato alibi da azzeccagarbugli. L’esposizione della premier fa piazza pulita di tutto questo. Se in ballo c’era la sicurezza del Paese e dei suoi abitanti, la principale responsabile della scelta presa in quei giorni ha l’obbligo di spiegarne le ragioni senza celarle dietro la scusa della carta da bollo scaduta o dei dossier arrivati sul tavolo del guardasigilli troppo tardi. In tutta evidenza questo passo la presidente non ha alcuna intenzione di farlo. Sinora si è sempre rifiutata di parlare dello spinosissimo caso e c’è da scommettere che tenterà di farlo ancora. Promette di confermare la correttezza politica, non formale, della scarcerazione “sedendomi accanto a Piantedosi, Nordio e Mantovano al momento del voto sull’autorizzazione a procedere”.

Non può bastare. Giorgia non deve sedersi vicino o lontano dai suoi ministri. Deve parlare e spiegare. Deve dire quali interessi inconfessabili legano l’Italia alle bande di trafficanti e torturatori libici. Cosa li rende tanto preziosi da non poter essere toccati senza mettere a rischio la sicurezza di tutti gli italiani. E’ fin troppo evidente che quei legami strettissimi derivino dagli scellerati accordi con le diverse bande libiche per fermare i migranti e che proprio questo sia l’aspetto innominabile della turpe vicenda. Su questo Giorgia Meloni deve essere incalzata e costretta a esporsi davvero in prima persona, di fronte al Parlamento e al Paese. Ma sull’opposizione pesa un peccato originale: quegli accordi non se li è inventati la destra ma un ministro degli Interni con la tessera del Pd in tasca, Marco Minniti.

l'Unità

l'Unità

Notizie simili

Tutte le notizie
Animated ArrowAnimated ArrowAnimated Arrow