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Death Stranding 2: si cammina meno, si spara molto di più

Death Stranding 2: si cammina meno, si spara molto di più

Poco prima dell’uscita di Death Stranding 2, Hideo Kojima ha espresso alcune preoccupazioni sul gioco. Era preoccupato perché stava piacendo troppo a chi lo aveva provato e, secondo lui, le cose che piacciono a tutti durano meno di quelle opere che convincono poche persone subito e hanno bisogno di tempo e discussioni per essere apprezzate di più. Seguendo questa logica, avrebbe apportato anche dei cambiamenti dell’ultimo minuto.

Ora, non sappiamo quali siano stati questi cambiamenti, ma ci sentiamo di dire che Kojima può stare tranquillo: Death Stranding 2 farà sicuramente nascere dei dibattiti e dei confronti, perché è un videogioco pieno di temi, atmosfere in contrasto tra di loro, esagerazioni, momenti barocchi, scelte eccessive e altre timide, paesaggi incredibili, musiche spettacolari, temi importanti, momenti lirici, emotivi e bellissimi, accostati a mostri giganti, assoli di chitarra in faccia all’apocalisse, depressione, suicidio, rinascita. È un barattolo troppo pieno di cose, e altre volte troppo vuoto, e non si può restare indifferenti.

Ma partiamo dall’inizio. Death Stranding 2 riparte più o meno dove ci eravamo lasciati. Sam Porter vive nascosto e felice assieme a Lou, la bambina salvata alla fine del primo capitolo che era stata nel grembo virtuale che lo aveva accompagnato nel suo compito di riunire gli Stati Uniti. Ovviamente ci sarà di nuovo bisogno di lui per continuare a collegare alla rete chirale anche altri Paesi, portando pacchi e speranza, quindi dopo poco saremo nuovamente sulla strada, con nuove tecnologie, nuovi percorsi e nuovi e vecchi nemici.

Rispetto al primo capitolo sembra quasi che Kojima abbia deciso di ascoltare chi non aveva voglia di camminare troppo e chi voleva combattere di più. Il gioco, infatti, dopo qualche ora offre già soluzioni molto comode per affrontare il viaggio senza rischiare grandi fatiche, prima con una specie di moto a tre ruote e poi con un camion che col tempo può essere attrezzato con un sistema di recupero pacchi autonomo, batterie aggiuntive e mitragliatrici. E se pensate che questi mezzi avranno vita dura nei terreni più impervi vi sbagliate: ci sarà quasi sempre un percorso abbastanza largo per muoversi. E spesso ci saranno fin troppi modi per muoversi, alcuni particolarmente macabri e assurdi, ma non vogliamo anticiparvi niente.

E quindi, se nel primo capitolo le camminate tra i monti tra scale e corde erano un must identitario del gioco, qua lo saranno le lunghe traversate accompagnate dalla musica e dal ronzio dei motori elettrici nel silenzio di un deserto illuminato da un cielo magnifico.

Ecco, parliamo della musica: tornano ovviamente i Low Roar, vero pallino di Kojima, ma dopo la morte del loro frontman, Ryan Karazija, si è affiancata la colonna sonora di Woodkid, che ha dovuto raccogliere il testimone e lo ha fatto in modo egregio. La sua To the Wilder è un bellissimo manifesto per tutto il gioco e vi ritroverete a canticchiarla assieme al tema di Lou e a Raindrops Keep Fallin’ on My Head.

Unica pecca di questo mondo bellissimo: dai trailer ci avevano promesso un mondo più mutevole e soggetto a inondazioni e terremoti. E se tutto sommato le prime ogni tanto si avvertono quando piove, i cosiddetti “varcosismi” si limitano a qualche scossone dello schermo, senza mai veramente impattare sugli spazi attorno a noi. Forse l’unica grande pecca del gioco.

Ma se si cammina meno, si spara molto di più, molto, molto di più. Tutte le remore sull’evitare i conflitti qua cadono completamente e piano piano veniamo non solo messi al corrente di un arsenale sempre più grande, ma ci viene espressamente chiesto di usarlo in varie missioni dove dobbiamo recuperare oggetti o fare piazza pulita di fuorilegge che minacciano un avamposto. E quindi sotto con fucili automatici, mitragliatori, fucili da cecchino, granate e così via.

In tutto questo a venire meno è quel senso lugubre e crepuscolare che caratterizzava certi passaggi, soprattutto quelli in cui ritrovavamo nei campi infestati le ombre dei morti pronte a trascinarci nel catrame. Certo, ci sono ancora, ma che paura possono farmi se sfreccio in mezzo mentre un cannone automatico ne fa scempio, e posso serenamente andare oltre?

Gli unici momenti in cui possiamo ricordarci di quanto fanno male sono alcuni scontri specifici o zone particolarmente infestate che ricordano molto il primo capitolo, però con alcuni aggiustamenti che rendono il tutto un po’ più divertente e dinamico.

E la storia? Beh, siamo di fronte a Hideo Kojima, che con Death Stranding ha spinto l’acceleratore su un racconto stratificato, criptico, metafisico ma anche volutamente arzigogolato, e quindi è lecito aspettarsi un po’ di tutto. Stavolta, bisogna dire, di spiegazioni ce ne sono, forse più di prima, e non si arriva alla fine con l’idea che si sia detto troppo poco, anzi, forse Kojima dice troppo e lo dice, come sempre, a modo suo, ovvero esagerando con una serie di scene e contro-scene incrociate, alternando punti di vista, momenti bellissimi e volutamente ridicoli, citazioni a sé stesso e al cinema, il tamarro e il sublime. E in questa sua voglia di dirti tutto quello che gli viene in mente finisce che argomenti degni di prendersi più tempo vengano risolti molto alla svelta.

E, soprattutto, Kojima racconta senza bilanciare molto le parti di storia all’interno del gioco. Quindi dopo l’inizio tutto è abbastanza lineare e quasi identico al primo per molto tempo. Seguono poi alcuni passi avanti della trama, che resta sopita per un bel po’, poi si riattiva, inizia a correre e finalmente si scatena in un finale lunghissimo pieno di combattimenti, ribaltamenti, colpi di scena, lacrime e rock.

Non che non sapessimo che a Kojima manca una certa misura, anzi, ci piace così, perché è in quella esagerazione che spesso troviamo le cose che ci piacciono, ma qua si vede che non ha avuto nessuno che gli ha messo una mano sulla spalla per dirgli “anche meno”.

Anche i temi sono tipici della sua poetica: l’antimilitarismo, il suo bisogno di connessioni, il suo amore per il genere umano, nonostante tutto, lo slancio di affrontare il futuro e le sue sfide con coraggio, assieme. Ma anche il lutto, la depressione, il suicidio, l’amore per gli altri, l’introversione, il transumanesimo, anzi, il postumanesimo, l’immigrazione, la morte e ovviamente la nascita.

E poi non dimentichiamoci che Death Stranding anticipò molti temi del Covid e dell’isolamento forzato, e ovviamente se ne riparla.

Se vi sembrano troppi temi tutti assieme per un gioco forse la vostra intuizione non è troppo sbagliata.

In questo enorme frullato narrativo-proteico va dato atto che ogni personaggio, nonostante un cast enorme che passa da George Miller a Luca Marinelli passando per Elle Fanning e le vecchie conoscenze di Léa Seydoux e Nicolas Winding Refn, riesce a ritagliarsi uno spazio per dirti qualcosa di sé, per raccontare parte di questo mondo e farti affezionare un po’. Dalla timida Rainy, personificazione degli introversi che da lontano sembrano in un modo ma che da vicino possono essere le persone più dolci del mondo, a Neil, uomo pieno di dolore e brutti ricordi che dovremo affrontare a più riprese per capire come mai è così ossessionato da noi (che poi è la stessa cosa che facevamo col personaggio di Mads Mikkelsen nel primo gioco, ma ora c’è Luca Marinelli, già pronto per un film su Solid Snake, che vi insulta in italiano anche se avete selezionato il doppiaggio inglese).

Eppure, in questo cast incredibile forse a spiccare è il volto meno famoso: Troy Baker, nome conosciutissimo nei videogiochi, perché dà corpo e voce a Joel in The Last of Us, Samuel Drake in Uncharted e molti altri titoli, che qua riporta in scena un Higgs mefistofelico, affascinante, glam e disperato.

Insomma? Per tornare all’inizio, crediamo veramente che Kojima possa essere felice, ma che in qualche modo, per cercare un’imperfezione degna di dibattito, abbia in gran parte sconfessato alcune delle cose che rendevano particolarmente bello Death Stranding. Non sappiamo se lo ha fatto per piegarsi un po’ alle regole del pubblico, se volesse cambiare strada o cos’altro, ma se dopo il primo Metal Gear arrivò un secondo capitolo che rimise tutto in gioco in maniera provocatoria e attuale, qua non abbiamo un Metal Gear Solid 2 che ci dice di spegnere la televisione o che ci provoca con nuovi personaggi, ma più qualcosa di confortevole, che riprende quanto di buono fatto dal primo gioco e smussa tutti gli spigoli e le scelte più autoriali, su cui viene voglia di passare ore se il primo lo avete amato, ma saranno ore con un gusto diverso.

Se dovessimo riassumere il tutto: Death Stranding 2 è un gioco meccanicamente più fluido del precedente, ma un’opera globalmente meno interessante, meno coraggiosa, che soffre tantissimo di una narrazione compressa in alcuni momenti chiave e troppo dilatata in altri. E poi ovviamente c’è tutto quel suo modo di raccontare le cose, nell’esagerare nel raccontarle, che stavolta potrebbe lasciare interdetti anche i suoi fan più accaniti.

Ma visto che tanto alla fine la domanda che conta è “ok, ma vi è piaciuto?” vi diciamo che sì, alla fine del viaggio, dovendo sommare momenti assurdi, qualche chilometro di noia, paesaggi bellissimi, commozione, musica, un po’ troppi proiettili sparati e personaggi con cui avremmo volentieri vissuto le nostre avventure per sempre, possiamo dire che se Kojima, dopo aver lavorato all’adattamento cinematografico, vuole provare a sbagliare un terzo capitolo, noi ci stiamo.

La Repubblica

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