“La carestia a Gaza ha aperto gli occhi a una parte di Israele”, parla Anna Foa

«Netanyahu non se l’aspettava, ha reagito nel peggiore del modi: il suo folle negazionismo ricorda quello sulla Shoah. La diaspora? È cambiata troppo poco, si è ancorata al 7 ottobre. Ma come ha detto Grossman, perfino il 7 ottobre sbiadisce di fronte a quel che sta accadendo nella Striscia»
Anna Foa, una grande intellettuale, una voce libera, coraggiosa, coscienza critica della diaspora ebraica. Si spiega così lo straordinario successo del suo ultimo libro “Il suicidio d’Israele” (Laterza).
Siamo a neanche un mese dal secondo anniversario di quel tragico 7 Ottobre 2023. Professoressa Foa, come è cambiato in questi due anni Israele? È cambiato molto profondamente. È cambiato in varie fasi. È cambiato con una grande paura, innanzitutto. La paura che il 7 Ottobre si ripetesse, l’orrore per quello che era successo, lo sconvolgimento. Molte persone, anche di sinistra, abituate ad avere rispetto e considerazione per l’altro da sé, i palestinesi, hanno cambiato idea, spinti dalla paura. In quel momento ci sono stati dei profondi rivolgimenti. Ci sono stati momenti in cui l’opinione pubblica si è coalizzata maggiormente su Netanyahu, nonostante le critiche immediate, durissime, che la sua mancanza di reazione iniziale al 7 Ottobre aveva suscitato. Ci sono stati diversi momenti…
Qual è l’ultimo? Beh, adesso siamo arrivati a un momento in cui una parte d’Israele riconosce l’altro. Riconosce la sofferenza dei palestinesi. È l’Israele che scende in piazza portando le immagini dei bambini palestinesi assassinati, in manifestazioni che sono anche per i palestinesi e non soltanto più per gli ebrei presi in ostaggio. È un momento in cui si spera che qualcosa venga fuori, in cui molte voci si levano a dire: non andate a fare il servizio militare, ai soldati di non andare a Gaza, la disobbedienza civile… tutte cose che due anni fa non c’erano. Si dice che due anni fa fosse unanime il coro di quanti dicevano che la reazione fosse stata giusta. Non ricordo che la reazione fosse sembrata subito così giusta. Pochissimi giorni dopo, già si parlava che quella che veniva raccontata da Netanyahu come una guerra ad Hamas in realtà era chiaramente una guerra ai palestinesi. Comunque, anche accettando che molte voci avessero affermato di ritenere giusta la nostra reazione, bisogna dire che tutto questo adesso è cambiato. Forse è la prima volta che ciò accade. E su questo varrebbe la pena spendere un pensiero…
Quale, professoressa Foa? Israele si è sempre messo in una sorta di nucleo chiuso, una bolla di chiusura dalla quale neanche la sinistra usciva tantissimo. Adesso, per la prima volta, sembra che l’opinione pubblica del mondo su almeno una parte della società israeliana stia facendo presa.
Scrive Haaretz: “Netanyahu non sta tradendo solo gli ostaggi. Sta trasformando Israele in uno Stato paria agli occhi dell’Europa, degli Stati Uniti e dei Paesi arabi”. Certamente. Questo lo si è detto da parecchio tempo. Di certo dopo il marzo di quest’anno, cioè dopo che contro tutto il mondo Netanyahu ha bloccato i rifornimenti di viveri per i gazawi, provocando una carestia indotta, e ha rifiutato una nuova tregua, a partire da quel momento Israele è diventato uno Stato paria. Io credo che chi scende in piazza per gridare la sua opposizione alla guerra, stia facendo anche una battaglia per Israele, non soltanto per i palestinesi. Una battaglia per salvare Israele. Non solo la sua anima, ma forse in questo momento, pensiamo alla reazione dei Paesi arabi di fronte alla volontà di annessione della Cisgiordania, anche la sopravvivenza stessa dello Stato d’Israele.
Quella parte di Israele resiliente, che per usare il titolo del suo bellissimo libro, sta cercando di evitarne il suicidio. Sì. Questa parte ha avuto uno scossone lo scorso marzo. Ed è la carestia ad averlo determinato. Vede, mi sono domandata spesso perché c’è tanta differenza nel vedere una persona morire di fame, vedere un bambino che muore di fame, piuttosto che vederlo morire sotto una bomba.
E quale risposta si è data? Che nell’emozione delle persone ci sia una differenza. E questa differenza è emersa nel mondo ma anche dentro Israele. Su questo forse Netanyahu non aveva riflettuto e ha cercato di reagire nel modo peggiore, negando. Con un negazionismo folle che ricorda il negazionismo della Shoah. Negando la carestia, e come lui altri nella sua cerchia. La carestia ha cambiato le cose.
La contabilità delle morti. La gerarchia degli orrori. Professoressa Foa, siamo caduti nell’abisso di una moralità selettiva? Selettiva nel senso che se muore un ebreo conta molto e se invece muore un palestinese conta meno di zero, anzi è un sollievo perché certo era un adepto di Hamas o comunque ha collaborato con Hamas e comunque era un palestinese. Per la destra israeliana di certo è così. Si sentono degli audio terrificanti in cui dicono cose spaventose sull’uccisione anche dei bambini o sul fatto che non esiste nessun innocente a Gaza. Questo mi ricorda un articolo de Il Foglio in cui si dice che se Hind Rajab, la bambina la cui terribile storia è stata portata alla Mostra del Cinema di Venezia in un film struggente, fosse sopravvissuta, è stato detto e scritto, con un cinismo ributtante, che se fosse sopravvissuta forse da grande avrebbe dovuto coprire i suoi capelli. Ma sarebbe stata viva, anche se avesse dovuto coprire i suoi capelli! Come dice Adriano Sofri, magari avrebbe scelto lei di coprire i capelli.
In precedenza, si è detto come sia cambiato Israele in questi due anni. E la diaspora ebraica come è cambiata, se è cambiata? Magari fosse cambiata. Certo, ci sono un po’ più di voci che si levano contro quello che succede, anche voci più moderate della mia. Di quelli che hanno iniziato in maniera nemmeno tanto accesa e che poi sono stati spinti dagli eventi, da quello che succede e non da un loro processo di radicalizzazione. Io mi sento radicalizzata rispetto a due anni fa, ma mi sento radicalizzata perché ciò che succede mi ha radicalizzata, mi ha indignata più di quanto non fosse stato con i primi bombardamenti su Gaza. Certo, l’indignazione per il 7 Ottobre io l’ho provata e la provo tutt’ora quando ci penso, però, come diceva David Grossman in una bella intervista a Repubblica, che perfino il 7 Ottobre sbiadisce di fronte a quello che sta succedendo a Gaza. La diaspora è cambiata troppo poco. Non è cambiata, si è ancorata, aggrappata innanzitutto alla memoria del 7 Ottobre, tirandola fuori in ogni occasione: non parlate abbastanza del 7 Ottobre, non c’è una menzione del 7 Ottobre, anche quando c’è, anche di fronte a persone che hanno detto a chiare voci quello pensavano del 7 Ottobre, sono pochissimi quelli che effettivamente hanno cercato di legare il 7 Ottobre ad una sorta di momento rivoluzionario e così giustificandolo. Queste voci sono scarsissime dentro la sinistra e tra gli oppositori di Netanyahu nella diaspora e nel mondo esterno. Prima c’è questo, e poi c’è la negazione, perché ormai di questo si tratta, di gran parte delle cose che succedono quotidianamente a Gaza: la fame è una invenzione, una foto sbagliata basta a mettere in discussione tutte le foto dei bambini morti di fame, dei quali sappiamo il nome, perché l’ha letti il cardinale Zuppi. La diaspora è veramente cambiata troppo poco. Questa è un’angoscia, perché si rompono amicizie lunghissime, parentele perfino. Penso che la diaspora avrebbe dovuto reagire con forza, non perché le venga richiesto di giustificarsi, di essere ebrei buoni, ma perché in qualche modo è in nome loro che questo viene fatto. In nome mio e degli altri ebrei nel mondo. Io penso che la diaspora avrebbe avuto, più del resto del mondo, la necessità di impegnarsi nel cercare di porre fine a questo orrore. Lo penso perché è un imperativo etico e perché esiste una memoria dell’etica ebraica, dei profeti, ma anche man mano dei filosofi e di quello che è stato il mondo ebraico della diaspora, che ora sembra completamente perduto per la nostra diaspora.
Lei ha vissuto per alcuni periodi della sua vita in Israele. Se non ci fosse una minaccia esterna, vera o presunta, a tenerli insieme, come potrebbero convivere i ragazzi laici di Tel Aviv con gli haredim di Gerusalemme? Nel mondo della sinistra non c’è una tale differenza tra i gerusalemitani e i telavivi, anche se ci sono certamente modi di vita e anche interpretazioni del mondo diverse. Sono diversità che assomigliano a quelle di tutto il mondo. Va peraltro detto che Tel Aviv è una città con pochissimi arabi-palestinesi, è una città tutta ebraica, come tale è nata. E questo è fortemente percepito, mentre Gerusalemme è la città dove s’incrociano arabi, arabi musulmani, arabi cristiani, un mondo estremamente variegato. Ma questa, lo ripeto, è una differenza che si può ritrovare in altri posti. Io credo che la tragedia degli ebrei è di appartenere a una nazione, a uno Stato che sta andando verso la catastrofe, verso l’abolizione di ogni elemento di democrazia. Lo stacco in questo momento passa tra la destra messianica, quella religiosa, e tutti quelli che a sinistra o meno a sinistra, attenti solo alle riforme antidemocratiche di Netanyahu invece partecipi di quello che succede a Gaza, si sono comunque mossi contro il Governo e possono radicalizzarsi, usando questo termine nel senso di diventare più decisi nella lotta contro un Governo fascista, razzista e sterminatore.
l'Unità